Lo ammetto. Durante le ferie non sono riuscito a staccare completamente la spina. Diciamo che non ho praticamente mai lavorato eppure, soprattutto per diletto, ho cercato di scoprire nuove fonti di informazione ispiratrici per la mia attività professionale.
Amber Naslund è sicuramente una di queste scoperte. Ho letto alcuni dei suoi articoli sul Digital Marketing e nello specifico sugli obiettivi “reali” del Social Media Marketing.
Uno degli articoli mi ha colpito particolarmente per la schiettezza con cui, in pochi paragrafi, Amber riesca ad esprimere una serie di riflessioni definitive sulla questione, andando dritta al punto.
Ho pertanto deciso di renderle omaggio cimentandomi in una traduzione libera del suo post. Credo che ne valga davvero la pena, anche se naturalmente vi consiglio di leggerlo nella versione originale. Buona lettura e aspetto la vostra opinione nei commenti.
C’è qualcosa di importante di cui rendersi conto una volta per tutte riguardo i touchpoint, spesso chiamati in causa quando si parla di web e di business.
Sempre più spesso, a chi ci chiede il perché della nostra partecipazione (aziendale) sui Social Media, rispondiamo evidenziando una serie di obiettivi, tra cui i seguenti:
Sebbene questi possano essere tutti correttamente definiti come “obiettivi”, non possiamo avere la presunzione di additare nessuno di questi come un obiettivo realmente primario.
Possiamo invece indicarli come tappe di un percorso in direzione dell’ unico vero obiettivo: la crescita del business determinata dal fatto che le persone scelgano noi piuttosto che qualcun altro.
Quindi brand awareness, community, relazioni… sono sicuramente ottime cose in sé e per sé. Ma se ci si ferma li, non si può disporre di un business redditizio o quantomeno sostenibile. Vanno pensati piuttosto come nodi di una rete simbiotica: sono tutti carichi di enormi potenzialità ma solo quando sono integrati e si influenzano reciprocamente per creare qualcosa di più grande, le riescono ad esprimere a pieno.
Anche se (chissà per quale motivo poi) spesso cerchiamo di ometterlo, il nostro vero unico obiettivo è quello di sostenere economicamente le nostre organizzazioni (anche in caso di no profit!), in modo da poter perseguire i nostri scopi.
Ciò significa solo e soltanto una cosa: ci devono essere entrate economiche.
Entrate che significano beni e risorse che ci permettano di fare di più di quello che facciamo, come per esempio creare un nuovo prodotto o distribuire un nuovo servizio.
Non possiamo creare niente di valore senza avere il capitale con cui costruirlo.
Sebbene di per sé la popolarità del marchio sia qualcosa di estremamente importante, da sola non porterà nulla. E’ molto chiaro che, il brand può anche essere popolare, ma se le persone non lo comprano, e non consigliano neppure ad altri di farlo, la popolarità resta fine a se stessa e priva di alcun valore. Insomma, la riconoscibilità del marchio è uno dei mezzi, ma il fine ultimo dev’essere per forza l’azione.
Succede qualcosa di simile anche con il concetto di community. Costruiamo community per costruire fiducia. Costruiamo fiducia per dimostrarci più validi del ragazzo in fondo alla strada. Vogliamo dimostrare questo valore a tal punto che nel momento in cui ci sarà da “fare business”, chi si fida di noi lo farà con noi e magari finirà per diventare nostro portavoce anche con altre persone.
E cosa dire del concetto di leadership? Vogliamo far emergere le nostre competenze così da poterci distinguere da chi fa le nostre stesse cose, nella speranza di dimostrare di vedere più chiaro e più distante degli altri. Lo facciamo perché vogliamo che quando qualcuno decide di darci i suoi soldi, lo faccia convinto di aver fatto un investimento.
Non bisogna sentirsi in difficoltà e tanto meno in colpa nell’ammettere di voler costruire community e coltivare relazioni in modo che il network plasmato sulla base di affinità e valori porti benefici al proprio business. In realtà tutto ciò è vitale. Ed è giusto così.
E non bisogna fare l’errore di interpretare quello che sto dicendo come un “i social media devono unicamente generare vendite altrimenti non servono a nulla“. Sarebbe troppo semplicistico.
Quello che dobbiamo fare in questo momento è creare molti più percorsi di conversione verso l’obiettivo finale, con molti più “punti di rassicurazione” durante la strada. Dobbiamo creare uno strato più fitto di punti di contatto (touchpoints) che permettano anche all’eventuale transazione economica di essere percepita come una conclusione naturale di un percorso e, perché no, come un lieto fine.
E’ da ingenui pensare di costruire community per il bene stesso degli utenti che ne fanno parte. O “relazioni” per il loro stesso valore intrinseco. A meno che non si stia facendo tutto ciò senza la benché minima speranza di racimolare un nichelino per la propria organizzazione, o con l’idea di finanziare il bilancio sempre e comunque aprendo il proprio portafogli.
Le relazioni sono davvero preziose. E ci sta anche volerle semplicemente perché sono appaganti, ci mancherebbe. Ma in un contesto aziendale, il rapporto deve andare oltre e portare a qualcosa di concreto che ti permetta di costruire, di accelerare, di guadagnare. E tutti i punti di contatto attivabili sul web in maniera coordinata sono proprio perfetti per raggiungere questo scopo.
Tutte le strade insomma “portano a Roma”. O almeno dovrebbero farlo.
E’ il momento di ammetterlo senza la minima remora e cominciare a pianificare le strategie di social media marketing di conseguenza.
Fonte immagine: https://www.flickr.com/photos/91324153@N00/3541589541