In un articolo di ormai qualche settimana fa Giorgio Soffiato espone alcuni dubbi sul “celolunghismo social”, soffermandosi in termini piuttosto critici sulla questione real time marketing.
Giorgio ha il merito di sfruttare l’assist fornito da Plasmon (che cavalca le stupidate di Miss Italia per farci un discutibile post su Facebook…) per “scoperchiare il vaso” sulla questione, a mio avviso, più significativa: che senso hanno le metriche social, soprattutto quando decontestualizzate da tutto il resto?
Penso valga la pena ragionarci.
Continuiamo a sottolineare (io per primo!) che le vanity metrics, figlie dell’attività sui social (like, condivisioni e commenti o applause rate, amplification rate e conversation rate, per citare Avinash Kaushik che di metriche se ne intende), hanno poco senso e poco valore.
Eppure non ne possiamo fare a meno perché permettono di valutare in qualche modo l’attività di chi si occupa della gestione degli account social (il community/social media manager piuttosto che l’agenzia creativa che sta curando il social media marketing dell’azienda).
Succede quindi che un’attività come quella di Plasmon, se ci fermassimo a queste metriche, risulterebbe estremamente positiva: valanghe di like, condivisioni e commenti. Medaglie al social media team, tutti promossi e… cento di questi giorni.
Ma è davvero così? Forse no. Perché se scendiamo un minimo in profondità ci rendiamo conto di tutta una serie di criticità: che il “sentiment” dei commenti non è così positivo, che la voce del marchio appare snaturata, che la reputazione potrebbe scricchiolare a causa di un’ironia troppo ostica per l’audience a cui si dovrebbe parlare, e che non ha nemmeno granché senso chiamare in causa la fatidica “incidenza sul fatturato”, perché questa “roba qui su Facebook” sembra stare ad anni luce di distanza dal momento in cui davanti allo scaffale del supermercato si decidono la vita o la morte di un prodotto.
Allo stesso tempo però saremo ipocriti a dimenticarci che sempre noi (quelli di prima, con il sottoscritto in testa!) siamo soliti sottolineare quanto non sia corretto “valutare un pesce dalla sua capacità di salire su un albero” e che quindi non si possa pensare di valutare l’attività sui social media dal numero di acquisti, generati sull’ecommerce (perché sullo scaffale è ancora fantascienza) o dal numero di lead, generati sulle pagine del sito (per quelli in filiale ci si sta già attrezzando!).
Soprattutto perché 9 volte su 10 ci troveremo di fronte ad un’attività NON economicamente sostenibile. E quindi NON utile alla causa. Un’attività che non possiamo però tralasciare perché ne percepiamo il grande valore. Anche in termini economici.
Come possiamo venire fuori da questo rompicapo apparentemente irrisolvibile?
La mia è una proposta in 3 (s)punti. Discutibile, sicuramente. Ma da qualche parte dobbiamo pure cominciare…
1. Non è possibile pensare di valutare l’attività sui social solo attraverso le vanity metrics. Come non è possibile pensare di valutarla solo attraverso le metriche “pesanti”. Eppure la strada corretta oggi passa per il tenere traccia di entrambe e fare un’attività di validazione qualitativa sulle prime (come sono qualitativamente i commenti e le condivisioni dei post? Quanto la fan base genera economicamente sul lungo periodo?) e di sforzo massimo di predisposizione al tracciamento (tag utm su tutti i link, ma tutti!) e poi di analisi di tutti i touch points che partecipano alla conversione.
2. L’attività social fisiologicamente non sta in piedi da sola e quindi non è corretto valutarla a compartimento stagno. Il social media marketing è di grande supporto per l’ottenimento dei risultati soprattutto su altri canali (digitali e non!). Fa bene all’organico, fa bene al diretto e persino all’email (e non è difficile né capirlo né dimostrarlo), oltre ad essere fondamentale per l’assistenza al cliente ed il retargeting. Ma tendenzialmente si prende poco merito, perché tutto il merito è attribuito (altro bel tema quello dell’attribuzione!) al canale per cui gioca di sponda. Per questo è necessario monitorare costantemente la correlazione tra l’attività social ed i risultati che vengono attribuiti al resto dell’attività di Web Marketing.
3. A livello pratico è necessario fare un’operazione difficile, ma non impossibile: individuare un buon numero di micro conversioni ed assegnare ad ognuna di queste un valore economico, il meno arbitrario e più realistico possibile. Se tenere traccia di ordini e prenotazioni (macro conversioni) è ormai una pratica sdoganata (sono un’ottimista di natura!), ecco che si dovrà cominciare a tener conto anche del download delle brochure, o delle visite alla pagina di ricerca del punto di vendita più vicino, o di qualsiasi azione volontaria dell’utente sul sito (micro conversioni). E cercare in tutti i modi di darne un valore economico (il tempo e la fiducia del cliente nel condividere dati fanno naturalmente la differenza in questa attività!). Per approfondire questa parte pratica ti rimando a due ottimi articoli di Avinash Kaushik, Excellent Analytics Tip #13: Measure Macro AND Micro Conversions e Excellent Analytics Tips #19: Identify Website Goal [Economic] Values, a cui io stesso mi sono ispirato.
Il ragionamento esposto in questo post è stato alla base dell’intervento “Social Media ROI: dove, come e… quando è il ritorno sull’investimento della tua attività sui social“, che ho portato a Social Media Strategies 2015 a Ottobre, di cui condivido le slide qui di seguito.
Per l’occasione tra l’altro ho anche pubblicato la seconda (decisamente più approfondita!) versione del mio “Modello di analisi per il Social Media ROI“, ebook scaricabile gratuitamente e ricco di consigli pratici sull’argomento.