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L’eterno dibattito sulla validità del social media marketing rispetto alla vendita, unico, vero, indiscusso obiettivo delle aziende di tutte i tipi e dimensioni, anima il settore della comunicazione online fin dagli albori (dei social media).

In realtà nel corso del tempo abbiamo assistito ad una evoluzione della domanda cardine del dibattito che, poco a poco, anche con l’evolversi della consapevolezza degli operatori del settore, è passata da “i social media fanno vendere?” a “quanto i social media influenzano le vendite?” fino a “come si può dimostrare che i social media influenzino in qualche modo le vendite?” in un crescendo di complessità ancora oggi parzialmente irrisolta e chiaramente controversa.

Molti sono gli studi, più o meno approfonditi, pubblicati sull’argomento. Eppure, tralasciando l’ormai quasi universale accettazione che l’attività di marketing sociale possa favorire il branding (e quindi, più o meno indirettamente, anche la vendita di servizi/prodotti di quello specifico marchio!) si è spesso messi dinnanzi a risultati contraddittori rispetto alla questione social commerce si o no.

Nelle ultime settimane pertanto ho raccolto una serie di articoli (e approfondito alcune ricerche) che mi sono capitati tra le mani, proprio per cercare di capire questo fenomeno e provare a sviscerarlo ulteriormente insieme.

C’è chi dice SI. Secondo uno studio di Vision Critical (sondaggio online su 6000 utenti USA, Canada e UK, settore retail, periodo 17 mesi) sul “percorso da social network a vendita” 4 utenti su 10 completano l’acquisto di un prodotto dopo averlo apprezzato, commentato o condiviso sui social network. Interessante notare che la metà di tali acquisti (2 dei 4 su 10) avviene fisicamente in un negozio.

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Altro dato importante che emerge dal white paper è quello secondo cui più di 6 utenti su 10 postano molto raramente sui social network anche se si connettono molto spesso (la definizione esatta di questa tipologia di utente è lurkers) risultando quindi molto difficili da tracciare con i metodi convenzionali.

Però…

La parte più interessante dello studio è dedicata, secondo me, a capire la direzione nel rapporto causa-effetto tra desiderio di acquisto e “manifestazione di interesse” sui social network, argomento peraltro già trattato dal sottoscritto a proposito del percorso di conversione da (non) fan a cliente su Facebook.

E’ il desiderio di acquisto che conduce al click (mi piace, condivisione, commento) sul contenuto social o è il contenuto social che genera il desiderio d’acquisto, la cui prima manifestazione è un click?

Nella ricerca di Vision Critical si delinea la presenza di 3 “tribù” di utenti, tra cui spicca quantitativamente quella di coloro i quali hanno subito l’influenza social del prodotto, essendone già a conoscenza, sebbene non avessero ancora totalmente chiara l’idea di acquistarlo.

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C’è chi dice NO. Secondo una ricerca di Custora sulle modalità di acquisizione del cliente in ecommerce (solo acquisti online, dati tratti da bacino totale di 72 milioni di clienti di 86 retailers in 14 settori USA) Facebook è “responsabile” di 0,17% delle acquisizioni (meno di 2 su 1000!), mentre Twitter addirittura di meno dello 0,01%.

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I due canali social, secondo i dati dello studio, non solo vengono surclassati dalla ricerca organica ma più o meno da tutti i possibili canali online compresa l’email, i risultati sponsorizzati di Google, le affiliazioni e addirittura (ciliegina sulla torta!) i banner…

Però…

C’è un grosso “però” su questo studio che taglierebbe la testa a tutte le possibili velleità commerciali dei social network (e a tutti quelli che si professano social marketer…!): se si analizza a fondo la metodologia con cui sono stati raccolti i dati, spuntano queste frasi…

Acquisition channels were obtained via the “utm_medium” tag in Google Analytics. The UTM tags were used as the retailer recorded them in Google Analytics. 

e soprattutto…

Customers who came to the site directly, or through a link without a utm_medium tag, are not listed in any channel

Poniamo caso che effettivamente le vendite dirette generate (ma dovrei dire tracciate!) da Facebook e Twitter siano irrisorie. Eppure scorrendo rapidamente la lista dei canali, facendo un passo indietro e ragionando sul rapporto di ognuno di questi con la sfera social, qualche riflessione è quantomeno d’obbligo.

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Dell’influenza positiva dell’attività su Facebook nei confronti di quella su Google (risultati organici e sponsorizzati) ho già scritto trovando ampi riscontri nella blogosfera.

Per quanto riguarda l’influenza su visite dirette (neppure calcolate nell’indagine) sfido chiunque a negare che vi siano ampi vantaggi competitivi dal punto di vista del branding che si acquisiscono tramite attività strategica di content marketing sul social web. Senza parlare poi del cosiddetto dark social

Stessa obiezione si potrebbe fare anche sul meccanismo di subscription e quindi sull’acquisizione dei clienti tramite email (il modello di business “a sottoscrizione”, tanto in voga non solo negli USA, si basa sull’iscrizione dell’utente ad una mailing list da cui riceve periodicamente offerte, si pensi per esempio a Groupon!). In questo caso sarebbe interessante valutare le percentuali di lead generation da attività social (se si tratta di nicchia forte su social object di spessore, queste percentuali secondo esperienza personale possono anche essere, tenendosi pure bassi, del 10%!). Purtroppo si tratta di un dato che nell’analisi non viene neppure menzionato.

Il problema vero è che un acquisto è un percorso che non può prescindere da tutta una serie complessa di passaggi, anche semplificandolo al massimo e anche soffermandosi unicamente su un acquisto online. A tal proposito vi indico un interessantissimo studio di Google che spiega piuttosto bene quello che intendo.

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Se ci limitiamo a misurare l’ultimo passaggio prima dell’acquisto (come nello studio di Custora!) rischiamo di tralasciare una parte molto importante di come l’acquisto stesso sia maturato nella mente dell’utente. E quindi di dare troppa importanza ad alcuni passaggi e di sottovalutarne altri restando con una visione parziale del fenomeno (dello stesso parere del sottoscritto anche Jay Baer, che su Convince and Convert partendo da una ricerca diversa, altrettanto critica con il social commerce, arriva alle medesime conclusioni).

Pensiamo ad una partita di calcio: è come se dessimo tutta l’importanza del goal al centravanti, sottovalutando magari il fatto che l’azione del goal stesso è nata da una grande parata del portiere o da un ottima chiusura della difesa o da un superbo passaggio del centrocampista. O magari dalla combinazione di più di uno di questi fattori. Eppure noi possiamo misurare il goal e, al massimo se siamo proprio bravi, l’assist (mai sentito parlare delle conversioni assistite di Google Analytics?). Il resto è molto più difficile da dimostrare. Eppure c’è.

Segnalo anche una presentazione di Territorio Creativo, web agency spagnola, che paragona il percorso di acquisto al percorso della pallina del flipper, aggiungendo anche la “variabile impazzita” dell’offline a complicare la situazione. Da leggere anche l’ottimo focus su un ulteriore passaggio, tralasciato volontariamente fino ad ora: quello dall’acquisto alla fidelizzazione.

Social-Commerce-un-viaje-en-red-Territorio-creativo

Ma quella è un’altra storia ancora…